venerdì 14 novembre 2008



Massiccio del Marguareis

e Canalone dei Genovesi.




L'AVVENTURA

DEL MARGUAREIS



racconto



La montagna mi entrò nel cuore da sposato, dopo il diploma e l’impiego in fabbrica. Prima, lo confesso, ero un topo di città, un giovanotto gaudente, sempre in giro per strada, piuttosto in centro che nel mio quartiere. Musica e sottane le uniche preoccupazioni anche se, studiando all’Istituto per Periti Industriali, ne avrei dovuto avere altre. In più la mia famiglia, poco abbiente, non mi permise fino ai primi stipendi conoscere turismo e vacanze. Di fatti non mi ero mai mosso da Genova. Il che, d’altronde, essendo città di mare, con annessa riviera méta di villeggianti, non mi diede mai alcuna frustrazione. L’estate facevo quotidianamente i bagni nella bella spiaggia libera di Cornigliano, sulla scogliera del Castello Raggio, prima fosse abbattuto per farci l’italsider, ove avrei lavorato, e
l’aeroporto.
Un bamboccione ‘di strada’ intendiamoci per quello che il termine significava negli anni ’50 dell’immediato dopoguerra. ovvero un allegro giovane squattrinato e perditempo ben descritto da Federico Fellini nel film ‘I Vitelloni’. Maturando negli anni, con impiego e matrimonio, cambiando amicizie e modo di vivere, divenni altra persona. Abbandonando le soste al bar, i giri a vuoto nel corso cittadino, cercai altri interessi per il tempo libero. Uno fu l’alpinismo accattivato dal collega d’ufficio, l’ingegner Pozzi, che sul lavoro ripresi l’uso scolastico del cognome (mentre tra gli amici di strada ci chiamavamo per nome).
Pozzi era un rocciatore appassionato. Occupava la scrivania di fronte alla mia e nei momenti di relax mi parlava delle sue imprese passate, di quelle future. Aveva il cassetto pieno di fotografie, di libri della montagna, dei percorsi e dei rifugi. Sapeva tutto sulle catene e l’altezza delle vette. Un mattino, dopo un anno che decantava le meraviglie delle ascensioni, mi domandò: “Perché non vieni con me domenica prossima? Vado sul Marguareis.” Acconsentii ignaro di ciò che mi attendeva . “Andremo sulla cima passando per il ‘canalone dei genovesi’ mentre le nostre mogli ci aspetteranno al rifugio Garelli” specificò. “Ma non ho alcuna conoscenza di roccia…” “Facciamo la strada più facile, non ti preoccupare”.
Comperai i classici pantaloni di velluto caky, stretti col fermaglio appena sotto le ginocchia; scarponi alpini a stringhe con la cinghietta allo stinco tipici dei soldati alpini di quei tempi. Una bella giacca a vento, il maglione rosso, e la camicia di lana spessa a quadri rossoneri. Lo zaino di tela lo avevo dal militare. Guardandomi allo specchio mi piacqui molto sentendomi una specie di sherpa tibetano. Con la macchina raggiungemmo Villanova. Presso un cascinale ritirammo la chiave del rifugio. Posteggiammo le auto ai margini di un prato e tutti e quattro raggiungemmo il tozzo edificio; due stanze piano terra, cucina e camera coi lettini a castello. Passammo la notte con nugoli di topi che si divertivano a correrci addosso in tutte le direzioni, mentre le mogli gridavano come aquile. Per fortuna la grande stanchezza le gettò nel sonno completamente coperte dentro il sacco a pelo. Noi alle quattro del mattino prendemmo il sentiero per marciare verso la vetta del Marguareis. La camminata d’avvicinamento alle falde durò cinque ore. Alle ore nove eravamo sotto una gola di pietre, uno scosceso sassoso ripido canalone detto ‘dei genovesi’. “Risaliamo a zig zag per evitare slavine” ordinò l’ingegnere, e sicuro e spedito s’avviò, mentre io lo seguii trotterellandogli dietro come un cagnolino.

Ero felice. Mi piaceva l’impresa, il verde paesaggio. L’aria salubre e odorosa, alla quale non ero abituato. Respiravo a pieni polmoni. Quando la pietraia in salita finì ci trovammo sotto una parete verticale, alta come un grattacielo. “Ecco la vetta è lassù” mi indicò Pozzi. “Vai prima tu piano piano, senza guardare sotto. Metti mani e piedi come sulla scala”.

Infatuato, senza timore, iniziai l’ascensione avanzando facilmente poiché la parete aveva la roccia frastagliata, e trovavo sempre l’appiglio per mani, l’appoggio per i piedi. Ricordo che sbucai tirandomi sul bordo dell’ampio prato all’apice della montagna alla maniera di uno che scavalca un balcone. Raggiunto dal collega andammo alla Croce in Ferro della vetta e passeggiammo, mirando e rimirando il panorama. Ai piedi della Croce, sotto un cumulo di sassi, avvolto nel nylon trovammo il registro delle firme. Fiero vi scrissi: “‘Oggi prima domenica di maggio anno domini 1950 il sottoscritto Pier Luigi Baglioni si battezza alla montagna per la prima volta da Genova salito ai 2651 metri sul livello del mare del presente Marguareis’”.
Mentre sfogliavo il registro nel quale mi ero immortalato, Pozzi servì il caffè caldo dal suo thermos. Dopo il bicchiere sollecitò: “Bisogna rientrare, è meglio non perdere tempo, abbiamo altre sei ore di marcia prima di guadagnare il rifugio. Strada facendo pranzeremo al sacco”. Quelle parole, il sogno delle auto per il ritorno in serata a casa, mi destarono dall’incoscienza: “Dov’è il sentiero per scendere?” gli chiesi. “Sentieri non ce n’è. Dobbiamo rifare indietro la strada fatta”. E per farmi vedere si calò nella parete da cui eravamo saliti. Col naso incollato sulla roccia lo seguii ma dopo pochi metri mi prese il panico. Non riuscivo più a muovermi, tremando e senza fiato, rannicchiato in una nicchia della parete. Cercai Pozzi con lo sguardo e sventuratamente guardai giù. La valle spaziava immensa sotto i miei occhi. Ebbi un terribile capogiro, scoprendo una cosa a me sinora ignota: le vertigini. L’immensa distesa verde si perdeva all’orizzonte. Una conca di campi e boschi. Le rare casette mi apparvero incredibilmente piccole. Inoltre accentuò lo smarrimento vedere gli uccelli volare sotto di me, non sopra come la vista abituale dei gabbiani di quando prendevo il sole sulla spiaggia.
Stavo aggrappato all’anfratto come ventosa in preda all’angoscia. Pozzi, quando s’accorse che non lo seguivo, tornò sui suoi passi: “Che fai? Non vieni?” “No, non posso. Non ce la faccio. Ho paura.”
Lo vidi impallidire. Seguì una tiritera “Vieni” “No, non vengo” che durò almeno dieci minuti. Infine, visto che non riusciva a convincermi e sbloccare la situazione, rinunciò ad insistere.
Preoccupato mi disse: “Tu resta fermo lì. Io scendo a chiamare il soccorso alpino. Verremo a prenderti anche dopo il tramonto. Ma mi raccomando stai calmo. Non ti agitare, né muovere... Assolutamente!”. Riprese la discesa e lo vidi scomparire sotto i rilievi delle rocce. Allora mi spaventai ancora di più. “Pozzi! Pozzi!” gridai: “Pozzi, ritorna!” Il terrore di rimanere solo, accovacciato con la prospettiva di fare notte, valse a ricreare in me la volontà di procedere avanti. “Torna! Torna” gridai ancora.
Quando l’ebbi vicino gli borbottai “Voglio scendere con te. Ti seguirò!”. “Bene, il tratto è breve; ma non guardare in basso” rispose rincuorato e soddisfatto della decisione. “Dammi un minuto” chiesi per riacquistare determinazione e freddezza. Negli istanti successivi mi concentrai. Il pensiero della morte si disperse. Anzi nella mia mente nacque la sfida: “Vediamo chi vince” mi dissi sicuro che avrei battuto l’arpìa. Ripresa la padronanza di me stesso l’eventualità tragica non mi spaventò più. Mi sentivo forte, ora, e scesi freddo e accorto in fondo alla parete fino alla pietraia che come uno stradone portava dritta e scoscesa a valle.

“Bravo!” disse l’ingegnere quando arrivai “Ma sono stato incosciente a portarti lassù. Poteva finire anche male, e non sarebbe stata la prima volta. Dovevo dirti come stavano le cose”.
“Guarda che sarei venuto anche se descrivevi le difficoltà. Non me ne sarei reso conto, perciò non avrei creduto di avere paura. Farmi gelare da panico e vertigini”.
Avere superato quei momenti, ora però, mi diede estrema soddisfazione. Tuttavia, dopo un momento di silenzio, aggiunsi: “Però non ti seguirò più a scalare le pareti. Lo farai col Club Alpino
o da solo perché con me o sentieri di montagna o niente”.

Per anni ho riflettuto alla mia unica scalata del Marguareis. Mi fece assaporare l’amore per la montagna, ma anche il gusto del rischio di salire verso il cielo. Conquistare la parte terrena più vicina a Dio. L’alpinismo di roccia però non divenne passione. L’episodio è rimasto in un cantuccio dell’anima, senza svilupparsi. In seguito i figli, il lavoro, mi hanno separato dal collega.

Ho continuato le escursioni nei rifugi alpini ma più nell’inverno, coi soggiorni organizzati, per sciare nelle vacanze invernali. Nell’estate ho sempre preferito contemplare l’orizzonte marino. Godere del profondo silenzio montano è possibile anche senza scalare cime.




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